La parola e l’ascolto
Se sai comunicare empaticamente sei d’aiuto all’altro.
L’empatia è qualche cosa che non si può imparare, una dote naturale, con la quale nasci e in cui ti riconosci crescendo.
Ma il “buon ascolto” può essere una abilità esercitata e migliorata e porta ad una evoluzione verso la cura e l’interesse per gli altri.
L’empatia ti serve prima di pensare in termini razionali, è necessaria per entrare nella dimensione emotiva della persona che stai ascoltando e farle sentire che ci sei. Parlare è possibile solo se si ha una qualità particolare, ossia la tolleranza.
Per tolleranza non intendo la capacità di sopportare i contenuti del discorso, ma sentire che il tuo interlocutore può avere un “gradiente di verità” maggiore del tuo e tu potresti anche modificare il tuo pensiero, grazie e questo incontro.
Nella parola e nell’ascolto si costruiscono legami, nonostante i rapporti fra le persone siano sempre basati sulla precarietà, condizione difficile da modificare.
Il buon ascoltatore è in primis un testimone che riesce a dare importanza ai contenuti dell’altro. Per molti di noi questo può essere una guarigione.
L’ascolto ci solleva dalla mortificazione di essere soli, ignorati, non stimati, rende all’uomo un riconoscimento, senza il quale il soggetto vive un disagio angoscioso, come “essere solo nel buio della notte”. Il dipinto l’Urlo di Edvard Munch (1863-1944) rappresenta il grido di molti uomini.
Il grido può dirsi una preghiera rivolta verso l’altro, come sentire dentro di noi risuonare le parole “se tu non ci sei, io non sono nulla”.
Il riconoscimento di una persona è quindi fondamentale per il suo benessere.
Nella crescita psichica di un bambino, il potere della parola è potente. La mancanza di ascolto da parte del genitore trasforma la sua personalità, deformandola.
Secondo Carl Rogers (1902-1987) psicologo statunitense, fondatore della Psicologia Centrata sulla Persona, “l’autorealizzazione del bambino, in caso non riceva adeguato ascolto, viene fortemente sovvertita in bisogno di compiacere l’altro” e nel suo sviluppo questo lo porta ad ereditare la tendenza del genitore o a diventare un dipendente affettivo. Un dipendente affettivo offre molta attenzione all’altro, in cambio di poco.
Per fare un esempio il figlio di un narcisista cercherà di offrirsi al genitore in tutto per compiacerlo, attendendo chissà quando di ricevere amore. In questi casi l’accudimento del figlio è sostituito con la “gestione” del figlio. Durante la crescita questo ragazzo verrà sempre giudicato per le sue prestazioni e non per essere il soggetto da amare con debolezze e pregi.
Secondo Umberto Galimberti saggista, psicanalista e filosofo, la parola dei genitori è significativa fino a circa dodici anni, in questo periodo esiste una relazione verticale padre-figlio che ha fine con l’ingresso del ragazzo nella sessualità. In quel momento la relazione e la comunicazione diventa orizzontale, ossia con gli amici-coetanei. I genitori rimangono un riferimento per un dialogo possibile, ma poco probabile. Solo dopo i venti anni, per il figlio ritorna ad avere senso il colloquio con i genitori. Questo ci rende consapevoli che la madre e il padre devono usare la parola, il tempo, l’affettività fin dall’inizio della vita del bambino, per potergli trasferire sicurezza caratteriale.
Daniel Sterne (1934 – 1912) psichiatra, psicoanalista statunitense, uno dei maggiori studiosi nel campo dello sviluppo psicologico infantile, sostiene che “il neonato non è indifferenziato dalla propria madre”, ossia che il riconoscimento di una madre, costruisce la personalità del bambino. L’ascolto è quindi l’unica formula che fa entrare il proprio figlio completamente nella vita. Il bisogno di ascolto per la sopravvivenza, è secondo solo al bisogno del cibo.
Un esempio antico di quanto il bisogno di contatto verbale e fisico sia importante per la vita, lo offrì il re Federico II di Svezia (1194-1250) che nel tentativo di individuare l’origine del linguaggio, decise di tentare un esperimento assai crudele. Egli dispose che un gruppo di neonati fosse cresciuto dalle nutrici in assoluto silenzio, toccando i bambini solo per le cure igieniche, in modo che non ci fosse comunicazione attraverso il corpo, ne ascolto di parole. Secondo la cronaca di Frate Salimbene, contemporaneo di Federico II, i bambini non pronunciarono mai alcuna parola e piano piano morirono tutti. L’assenza di contatto verbale e fisico li portò alla morte. Altre osservazioni avvenute in un orfanotrofio, appena dopo la seconda guerra mondiale (Grief, A Peril of Infacy – Ricerca di Spitz e Wolf 1947), constatarono la stessa condizione.
Ma cosa deve avere un buon ascoltatore?
Esiste un ascolto attivo che comprende, risponde, ricorda le cose dette nel racconto e un ascolto passivo che si esprime solo nella presenza dell’ascoltatore, ma privo di vero interesse. L’ascolto attivo capisce quali sono i sentimenti dietro le parole. Ascoltare è complicato e necessita energie. Inoltre esistono cinque elementi importanti da mettere in atto in un vero ascolto: l’attenzione, il parafrasare, il riformulare, la mancanza di giudizio, il non dare dei consigli. Anche il silenzio è comunicazione e fa sentire importante la persona di fronte a noi.
L’arte di ascoltare richiede una vera immersione nel mondo dell’altro. Questa è una condizione che stimola l’altro ad aprirsi. Il mettere da parte se stessi per l’ascoltatore, diventa un modo per essere recettivi. Il tempo è tutto dell’interlocutore. Chi ascolta dovrebbe seguire il filo della storia, senza farsi prendere da emozioni reattive. Colui che parla deve sentirsi riconosciuto e accettato, mentre chi ascolta deve apprezzarlo.
Spesso nascondiamo in modo più o meno evidente il bisogno di comprensione. Alcuni diventano esperti nell’isolarsi riportando questo bisogno al riposo, alla riflessione in solitudine, ma ritirarsi dai rapporti umani ha spesso un ruolo difensivo. Può diventare fonte di ripiegamento su se stessi e portare a depressione.
L’ascolto è un processo a due: esiste un transfert e un controtransfert. inoltre si deve sottolineare anche la presenza di messaggi impliciti, ossia “non detti”, che scavano ad un livello più profondo, importante per l’interpretazione. Generalmente il vero messaggio di un momento di ascolto, è il sentimento che sta dietro il contenuto delle parole.
La relazione empatica può definirsi tale solo se possiede il dono della riflettanza.
Lacan (1901-1981) psicanalista psichiatra e filosofo francese, sosteneva che il principio di base del colloquio, fosse l’attenzione al racconto della persona e non la centralità del sapere dell’operatore. Tutto il significato sta nella parola dell’interlocutore, che è al centro della scena. Egli sostiene che la persona che ascolta deve avere ben chiara una posizione, qualunque formazione egli abbia, ossia “sapere di non sapere”. Ciò che conta è che la comunicazione porti beneficio spirituale e mentale all’interlocutore.
L’interesse per gli altri sembra essere espressione della parte di noi positiva. Il problema di ascoltare, come molti problemi umani è circolare: se riceviamo insufficiente comprensione, diveniamo insicuri, non otteniamo ascolto e non ne diamo. Il narcisista che reclama a gran voce attenzione, diventa una caricatura di tutti noi. Uno schema circolare può però essere interrotto se qualcuno è disposto a comportarsi diversamente. L’uomo vive in una rete di relazioni che conferiscono significato alla vita.
L’interesse per gli altri può aumentare la pienezza della nostra esistenza e se l’ascolto non è un bisogno che sentiamo, può essere un dono che elargiamo.
Manuela Nobile